E' a suo modo, un libro di attualità. Perché ci racconta
il lunghissimo backstage di una storia che si sta consumando. Infatti proprio
mentre il dramma del manifesto sembra arrivato alle ultime scene con una
serie di strappi crudeli, ecco che l' ottantunenne Valentino Parlato, poco
prima di lasciare anche lui il gruppo storico dopo Rossanda, firma un volume-intervista
dal titolo La rivoluzione non russa celebrando - con un po' di ritardo,
maè un peccato veniale- "quarant' anni di storia" del quotidiano.
L' ha pubblicato l' editore Manni, a cura di Giancarlo Greco (pagg. 183,
euro 14) ed è curioso leggerlo ora, sapendo quel che è successo
poi, in queste ultime settimane di separazioni e rotture. Riavvolgiamo
il nastro, allora, insiemea lui. Nato nell' aprile del 1971, ereditando
il titolo di testata da una rivista comparsa tre anni prima sotto la direzione
di Rossana Rossanda e Lucio Magri, il manifesto è stato non soltanto
la voce di una sinistra aspramente critica all' interno del Pci - il che,
dati i tempi, già segnava una dissonanza suggestiva - ma, all' indomani
della radiazione dal partito di molti fra i promotori, ha funzionato da
termometro per le speranze e le traversie incontrate dalla sinistra, non
solo italiana, nella seconda metà del secolo scorso. Sono queste
le vicende che Parlato ispeziona. Il suo contegno partecipe e tenero sparge
nel racconto un sentore di nostalgia. Il ruolo del narratore fa tutt' uno
con quello del protagonista. All' interno di quel gruppo, i destini (si
fa un po' fatica a dire le fortune) di quello che si è fregiato
lungo i decenni del sottotitolo "quotidiano comunista" e che minaccia di
crollare, vennero affidati a un trio: Pintor, Rossanda e, appunto, Parlato.
Non si trattava di un collettivo unanime. Non deve trarre in inganno il
fatto che l' autore del libro continui a ripetere «Luigi, Rossana
ed io», quasi alludesse a una solida falange. Nei fatti, il testo
di questa sua confessione in volume rigurgita di «sfide, liti e malumori
infernali». I tre amici non potevano essere più diversi fra
loro. Un tratto, tuttavia, li accomunava: l' antidogmatismo che aveva sorretto
la loro rivolta gli imprimeva (sono parole dell' autore) «non solo
il coraggio ma anche il gusto di dire di no». Le molte strategie
della tensione che attraversavano la cronaca italiana si riflettevano senza
posa nel gruppo. È stato Massimo Caprara, nel suo volume Ritratti
in rosso, ad effigiare i sodali più anziani della triade. Trovava
Rossana (sette anni più di Valentino), «lucidamente egemone».
Giudicava Pintor (che superava Parlato di sei anni) «imprevedibile».
Quantoa lui, Parlato, conviene attenersia un' autodefinizione: si considera
«il più modesto e moderato del gruppo». Non sembrerà
una "diminutio" se si immagina quanto, in un simile consesso, servissero
modestia e moderazione. Era lui a subentrare nei vertici del giornale quando
uno degli altri - la cosa accadeva spesso con Pintor - si assentava dal
comando non riconoscendosi nel lavoro comune. Quell' autorevole compagno
sardo difendeva con le unghie le esigenze professionali del manifesto "di
carta", quando gli pareva che questa o quella strategia o tattica politica
stesse prevalendo sugli obblighi del mestiere. Presidiava questa posizione
ripetendo senza sosta una sua elegante parafrasi letteraria: «un
giornale è un giornale, un giornale, un giornale». La nevrosi
dell' onestà non nasceva, in quel «gruppo di avventurieri»
da un partito preso. Al vaglio del loro organo di stampa, la cronaca italiana
risultava quanto mai severa. Sono innumerevoli le "novità" e gli
"incidenti" grandi o piccoli cui il manifesto ha dovuto far fronte. Si
può solo tentare di elencarli: dall' edificazione del muro di Berlino
alla rivolta dei paesi satelliti, dall' eresia cinese (cui gli eretici
nostrani aderirono con una passione che parve doverosa) allo smantellamento
dell' Urss, dal dilemma "giornale o partito?" alla fine del Pci e ai frastornanti
conati organizzativi della sinistra extraparlamentare. Eventi che Parlato
rievoca mostrandosene talvolta trasecolato. Abbagli, sbandamenti, illusioni
passeggere, fasi di un ottimismo incongruo con relativi disinganni, conflitti
generazionali fra i "padri fondatori" e i giovani sessantottini che li
aiutavano a fare il giornale, il terrorismo, i tormenti e le estasi del
sindacato, gli scontri diuturni con la "cavalleria del Pci", un partito
che brandiva contro gli apostati un' arma consueta e micidiale: "Chi li
paga?". Non li pagava nessuno. Nella lunga vita del manifesto, non si contano
le sottoscrizioni fra lettori e simpatizzanti; e quando il giornale si
vide costretto a fare spazio agli annunci pubblicitari, la decisione apparve
ai fondatori un tradimento "di classe". Accade assai spesso che si affacci
alla memoria di Parlato uno spettro: l' inconciliabilità fra i disegni
o le decisioni versati nel quotidiano e il reale susseguirsi degli eventi,
che non gli dava ragione. «Non fu così», «così
non andò», le cose si svolsero «molto diversamente».
Sono le riserve postume di cui l' autore si fa carico di continuo. L' onestà
di queste pagine e la buona fede del narratore sono sorprendentiea tratti
emotivamente efficaci. Com' è che si consuma un' utopia? A chi vada
in cerca di una risposta può essere preziosa la lettura della Rivoluzione
non russa. Di questi tempi, la parola e il concetto stesso di rivoluzione
appaiono assopiti. Naturalmente, senza un sussulto. In questo senso, la
testimonianza di cui abbiamo parlato assume l' aspetto di un promemoria
generoso, ma anche un po' patetico. È così. Qualche lettore
non più fresco di anni potrà scorgervi le tracce di un personale
"come eravamo". E qualche indizio per capire quel che succede oggi.
Nello Ajello, "la Repubblica, 29 dicembre 2012