Ancora un libro di memorialistica sul ’68. Si tratta infatti di una
serie di lettere che i due amici si sono scritti in occasione del trentennale
di un anno che, pur nella diversità delle scelte successive, è
stato importante nelle loro vite.
Sul 1968 esiste già moltissima memorialistica e molto meno studi
analitici approfonditi e documentati. C’era proprio il bisogno che qualcun
altro ex protagonista del ’68 si mettesse a spiegarci la sua verità
su quell’anno? Certamente ognuno può dire quello gli pare, ma quando
lo dice in forma pubblica, come con la pubblicazione di un libro, si presuppone
che quello che ha da dire interessi ad un vasto pubblico, a chiunque compri
il libro. In questo caso non è così. Il pubblico di questo
libro non è costituito dall’insieme generico delle persone che lo
comprano. Né è un’opera rivolta agli studiosi, e nemmeno
è un’opera divulgativa. Il pubblico cui è rivolto questo
libro è uno soltanto: i reduci. La categoria del “reduce del ‘68”
è ormai una categoria antropologica vasta e differenziata. De Luca
e Bolaffi appartengono ad una tipologia del reduce del ’68 connotata dai
valori negativi della sconfitta e, più ancora, del fallimento delle
loro aspettative, e dall’incapacità di “elaborare il lutto” della
sconfitta e del fallimento. Questo vale per entrambi gli autori: sia De
Luca per il quale il ’68 si prolungò almeno fino alla scomparsa
di Lotta Continua se non fino alla sconfitta operaia alla Fiat, sia per
Bolaffi, per il quale il ’68 terminò nella primavera ‘71. Infatti,
come scrive nel libro, nel ’71 si allontanò dal movimento che cominciò
a considerare irrazionale ed estremista, e prese le distanze da “chi inneggiava
a ‘champagne e molotov’ sognando che ‘la classe operaia deve dirigere tutto’
”. Ma anche questo suo rigetto cos’è, se non l’incapacità
di analizzare più a fondo quel movimento, le sue origini e i suoi
esiti nell’Italia degli anni sessanta e settanta? Per Bolaffi il periodo
dal ’69 al ’77 sono anni perduti (come ha dichiarato ad una presentazione
del libro), mentre diversa è la posizione di De Luca, che di quegli
anni perduti è stato protagonista. Protagonista non pentito, ma
fallito, a cui oggi resta solo “l’amara constatazione che alla resa dei
conti la somma degli errori commessi è sempre superiore a quella
delle cose più o meno buone da poter rivendicare”. Il suo è
il tipico caso di aspettative deluse: “Cercavamo giustizia ma non l’abbiamo
trovata, per eccesso di passione, per troppo amore”.
La posizione di De Luca, è descritta da lui stesso con un efficace
paragone con la situazione di Marek Edelman, uno dei comandanti della Resistenza
nel ghetto di Varsavia: “quando si vivono a vent’anni i momenti più
importanti della propria vita è difficile in seguito trovare un’occupazione
che non sembri priva di senso”. Dopo quei momenti esaltanti, nulla poteva
essere altrettanto esaltante.
Ma il contrasto tra le posizioni dei due autori è più
apparente che reale. Infatti entrambi si pongono nella medesima ottica
di analisi: l’ottica del reduce, di chi considera che il ’68 dal punto
di vista storiografico non può essere ancora rielaborato (anche
questo è stato affermato ad una presentazione del libro). Se l’analisi
storica è preclusa, cosa resta? Solo le sensazioni, i sentimenti.
Sentimenti di estraneità nel caso di Bolaffi, di appartenenza e
di rimpianto nel caso di De Luca. Questo libro non vuole fare una analisi
storica, non vuole fare ricerca sociale. Ma in questo contesto, anche quegli
aspetti interessanti del libro che pure esistono perdono di valore e si
riducono alla riproposizione di immagini stereotipate.
Come la questione, evidenziata da Bolaffi, delle “due anime” del ’68.
Secondo lui il “vero” ’68 finisce tra il ’69 e il ’70, dopo si riduce ad
“una rilettura in chiave attivistico-irrazionalistica del marxismo”, ad
“un’orgia di irresponsabile dannunzianesimo e di incosciente goliardia”.
Bolaffi in questo modo pone l’accento su una questione importante: quanto
è durato il ’68? Ha senso parlare di un lungo ’68 (così come
lo intende anche De Luca)?
Altra questione interessante, forse la più interessante e centrale
di tutte: la contraddittorietà del ’68 tra passione libertaria e
creazione di un nuovo conformismo, tra distruzione dei valori borghesi
e nuova ortodossia. Come scrive Bolaffi, “dopo aver infranto antichi idoli
alcuni, come intimoriti dal proprio gesto, decisero di erigere un nuovo
vitello d’oro cui intonare preghiere rivoluzionarie”. E’ questa una contraddizione
che meriterebbe di essere indagata maggiormente, perché è
forte l’ipotesi che essa sia “la” contraddizione su cui si esaurì
lo slancio rinnovatore del ’68. Ma la tesi riproposta è vecchia
e stereotipata: è la solita tesi sul ’68 buono, spontaneo, creativo,
e sui gruppi cattivi, burocratici e financo violenti. E’ una contraddizione
sicuramente vera ma difficilmente riducibile agli schemi semplicativi di
Bolaffi, perché non spiega come sia possibile che alcune aspettative
generino il proprio contrario, e soprattutto rifiuta che anche nei gruppi
possa essere confluita l’eredità del ‘68.
Ed ancora, un altro paradosso del ’68: un grandissimo slancio, un fortissima
volontà di cambiare le cose, e la modestia dei risultati conseguiti:
“per ottenere relativamente poco, annota Jakob Burkhadt, la storia ha bisogno
di preparativi enormi e di un fracasso assolutamente sproporzionato”. Bolaffi
si contenta della modernizzazione sociale e dei costumi prodotta dal ’68,
mentre a De Luca questo risultato lascia l’amaro in bocca, gli sembra poca
cosa in confronto alle aspettative.
Ed infine sono interessanti le pagine di ricostruzione del percorso
di formazione politico-ideale dei due autori nell’italietta degli anni
cinquanta e sessanta. Una Italia in cui “a Roma a far da padroni erano
la volgare arroganza dei palazzinari e l’ottuso perbenismo clericale colluso
con la violenza del neofascismo”. Una Italia e un mondo in cui non era
più possibile non sentire le ingiustizie, e la ribellione scoppia
con i casus belli del Vietnam (lo scandalo di constatare che la nazione
culla della libertà si comportava peggio dei nazisti) e dell’omicidio
di Paolo Rossi da parte dei fascisti all’Università di Roma, evento
che segna l’inizio della ribellione nell’università romana dominata
dai fascisti spalleggiati dal Rettore.
Ma quei pochi tratti interessanti di ricostruzione storica e di analisi
storico-politica perdono di valore nell’impostazione generale del libro.
Infatti che cosa apporta di novità questo libro? Nulla. La riproposizione
della tesi di Touraine del ’68 come “ultima giornata rivoluzionaria dell’Ottocento”
da parte di Bolaffi e un po’ di rimpianto da parte di De Luca. Non si stupiscano
perciò gli autori se “oggi i ragazzi guardano a noi di allora, ai
loro coetanei di trent’anni fa, a quelle storie come noi facevamo coi fantasmi”.
Perché mai ad un giovane dovrebbe interessare il parlarsi addosso
di reduci che rimuginano le loro tristezze, le loro sconfitte, i loro fallimenti,
le loro amarezze? Solo ad altri reduci possono interessare, ed infatti
non è un caso che il libro sia stato accolto favorevolmente da molti
iscritti alla categoria degli “ex” del ’68.