Cesare Battisti, L’ultimo sparo, Edizioni Derive e Approdi, Roma, 1998, p. 142, L. 24.000
 

Questo libro si può leggere un po’ come un romanzo, un po’ come un noir, e un po’ come un’opera di memorialistica, senza però essere strettamente autobiografica. Infatti le vicende personali dell’autore, alla fine degli anni settanta militante nei Proletari Armati per il Comunismo, servono da spunto per una vicenda romanzata che si snoda attraverso la lotta armata, le rapine, il carcere: momenti della trama del libro che anche l’autore ha conosciuto. Infatti Battisti ha fatto la vita del militante clandestino di una organizzazione armata, è stato arrestato, poi dopo una rocambolesca evasione è andato in esilio a Puerto Escondido e poi a Parigi, dove vive attualmente scrivendo libri noir di successo.
Solitamente nelle memorie di ex protagonisti della lotta armata manca il senso della quotidianità, mai si narra né delle vicende quotidiane anche banali, ridicole o misere (i litigi, le vicende di corna). Questo almeno per quanto riguarda le memorie di ex brigatisti, non a caso eredi di una tradizione terzinternazionalista seriosissima, che vede la propria azione come l’ombelico dell’universo e della storia e prende tutto estremamente sul serio, prima il delirio violento che scambia esecuzioni individuali per guerriglia delle masse, poi un pentimento totale che si conclude spesso nelle braccia della Chiesa.
Diversa è la situazione di quella parte di “movimento” che scelse di ribellarsi con le armi. Battisti proviene da questo mondo, faceva parte di quei giovani che in quegli anni vivevano di politica, in quella galassia che si chiamava “movimento” in cui c’era tutto e il contrario di tutto: operaisti e femministe, fricchettoni e seriosi responsabili di servizi d’ordine, antifascisti militanti e cultori dello yoga, il tutto tenuto insieme da un ribellismo a volte politico ed a volte esistenziale, e da una comunanza ideologica che in quegli anni non poteva non dirsi diceva marxista.
Battisti dipinge con efficacia la vita di quei giovani provenienti dal “movimento” che scelsero la ribellione armata. Le formazioni armate provenienti da quel magmatico movimento avevano uno “stile politico” ben diverso da quello brigatista, spontaneista anziché considerarsi nucleo d’acciaio di un autentico partito comunista rivoluzionario e combattente. Anche queste differenze tra Br e gli altri gruppi armati sono raccontate da Battisti, che narra i frequenti litigi dovuti a concezioni del mondo e della politica ben differenti, ben più vivaci quelle dei gruppi armati provenienti dal “movimento” rispetto alla paranoia brigatista, pur per quanto sia, a mio giudizio, criticabile e politicamente errata la scelta dello scontro militare fatta da quei gruppi armati.
A mio parere il pregio maggiore di questo libro sta nella descrizione del vissuto quotidiano dei militanti di questi gruppi armati. Una quotidianità un po’ caotica ed arruffona, sempre dominata dalla consapevolezza dell’ineluttabilità di un destino di scontro col potere, per una battaglia il cui esito non si prevede mai vittorioso, ma a cui non si riesce a sottrarsi.
La descrizione di alcuni momenti è veramente esilarante, come il ritratto del vecchio anarchico che ospita i clandestini, a cui nel ’45 il Pci ha impedito di far saltare la caserma dei carabinieri del paese, frenando così “la rivoluzione in Italia”. E che da allora conserva armi e bombe, non si sa se cariche o no, certo non pericolose per la salute dei suoi ospiti clandestini quanto le generose cene a base di salame e vino rosso a cui li costringe.
Questo libro non è un saggio storico o politico, perciò non chiediamogli quello che non può dare: una spiegazione del perché ci fu chi scelse di passare alla lotta armata, della contraddizione tra i comportamenti ludici ed ironici prevalenti nel movimento e la scelta della violenza.
Quello per cui il libro è prezioso è il suo valore di testimonianza, oltretutto raccontata con ritmo serrato, stile diretto, prosa efficace. Una testimonianza a volte con momenti tragici, a volte gioiosi, a volte banali o ridicoli. E proprio per queste differenti tinte, una testimonianza viva, tutt’altro che grigia.
Come scrive giustamente Valerio Evangelisti nell’introduzione: “Cesare Battisti ci parla di tutto questo, col tono aspro, l’ironia e l’assenza di retorica che gli sono consustanziali. Devono essergli grati non solo i lettori generici, ma anche gli studiosi dei comportamenti collettivi, dai sociologi agli storici: non hanno mai avuto tra le mani una testimonianza pari a questa. Ci voleva uno scrittore condannato all’esilio dal suo paese, dopo un’evasione e una sentenza di taglio militare assurdamente severa, per ripercorrere senza animosità ma con passione anni di cui, in Italia, è ancora difficile parlare, a meno di non rendere omaggio alle fumisterie di complotti inesistenti o di spargere lacrime di contrizione”.

Fabrizio Billi